Lasciamo ai giornaletti le immagini dei contadini sorridenti sotto le querce
L’agricoltura o è professionale o non può esistere
C’è qualcosa di più ingiusto e classista nella frase: braccia rubate all’agricoltura? Oppure in: vai a zappare. Le abbiamo usate spesso, viziosamente, accusando ora quello o questo di cafonaggine o altro, e il tutto mentre discutevamo in ristoranti più meno raffinati o litigavamo davanti a un banco di colorate primizie orticole. Una generazione di benestanti, benpensanti, che mangia, consuma, prega e spera, a volte spreca. Poi paciosamente relega (non tanto) simbolicamente il contadino (l’artefice di MasterChef, cioè del magnifico Paese di Bengodi, mai visto prima) nella classe sociale più spenta e muta: vai a zappare, va!
Ora, in piena crisi, in questa parte del mondo confusa e intimorita, piena di sensi di colpa verso le gesta umane, riscopriamo il valore di chi zappa. Anzi, ci diciamo: visto che stiamo con le mani in mano, ci diamo appuntamento nei campi? Niente di più sbagliato. A parte che sotto il sole non resisteremmo nemmeno il tempo un flash mob, dopo dieci secondi accuseremmo il classico e fastidioso calo di zuccheri. Ma poi non sapremmo nemmeno dove cominciare: ci vuole cultura per l’agricoltura. E immaginazione e creatività. Studi, disciplina e fatica: tutto questo significa, oggi, zappare.
Approfitterei di questa crisi sanitaria per ricordare a me e a tutti che l’agricoltura non è una dimensione bucolica. I contadini con sigari e cappello di paglia sotto le querce, per favore, lasciateli alle illustrazioni di quart’ordine. Quelle braccia che sfottiamo spesso non vengono nemmeno ricompensate a dovere, per non dire schiavizzate, perché è un termine che ci rovina le ricette che con ritmo crescente pubblicizziamo su Facebook e che decine e decine di odierni e ascoltati (e spesso insopportabili) maître à penser, cioè chef, ci propinano.
L’agricoltura o è professionale o non può esistere. Quella italiana soprattutto, considerati i problemi strutturali che la funestano. Professionale significa anche industriale (c’è poca terra e bisogna utilizzarla) e sostenibile (perché andiamo verso i dieci miliardi ed è necessario che i nostri passi siano i più lievi possibile). Professionale e sostenibile cioè colta, interdisciplinare e soprattutto scientifica. Volete mangiare sano e gustoso? Sì? Anche io. Allora bisogna investire in agricoltura, come si investe in elettronica. Quelle braccia non devono più esistere (è un’insopportabile mortificazione, nel fisico e nello spirito). Agricoltura professionale significa filiera razionale, nuova chimica, biotecnologie, tecniche agricole innovative: cioè tanti soldi da investire. Se oggi vuoi mettere sul mercato un agrofarmaco bio, certo non lo fai a casa tua giocando al piccolo chimico, ma studi prodotti innovativi, poi li testi e chiedi l’autorizzazione: tempo e denari. Se gridiamo “viva la competenza”, allora meglio cominciare dal cosiddetto settore primario: studiamo, ricerchiamo, innoviamo, investiamo. Altrimenti come dicevano i poveri soldati della Grande guerra quando scrivevano lettere struggenti a casa in linguaggio tecnico-contadino per non essere censurati: qui si vanga e non si zappa. Sembra un rebus vero? Ma solo per quelli che dicono: braccia rubate all’agricoltura.
Antisemitismo e fornelli